Gli istituti collegati e facenti capo a confessioni diverse dalla cattolica e che non abbiano ritenuto opportuno stipulare, o non abbiano avuto i presupposti per farlo, alcun tipo di accordo con lo Stato, sono disciplinati dalla l. 1159 del 1929 nota come "Legge sui culti ammessi" nonché dal r.d. 289/1930 di attuazione della medesima.
Considerando il periodo di formazione della legge è evidente come questa oggi risulti inadeguata ed in contrasto con i principi costituzionali di parità di trattamento, della eguale libertà di culto e del diritto inviolabile di professare la propria fede religiosa -art. 8, 19 Cost.-
Nel 1929 era infatti vigente lo Statuto Albertino che faceva dell’Italia uno stato confessionale -ai sensi dell’art. 1 la religione cattolica era la sola riconosciuta come religione di Stato- e che portava a concedere ai culti diversi dal cattolico non un riconoscimento vero e proprio bensì un atteggiamento di tolleranza, nel limite di non professare ne’ seguire riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume -art. 1-.
La natura tipica della legge 1159, originariamente ispirata ad una politica di stretto controllo pubblicistico su questi culti1, emerge anche riguardo alla disciplina prevista per gli istituti ed enti di tali confessioni.
Ai sensi dell’art. 2 tali istituti possono essere eretti in ente morale ma previa à‚‘valutazione politica’ e possono essere vincolati da ulteriori norme speciali sulla vigilanza e sul controllo da parte dello Stato2.
Il forte peso statale emerge anche nello svolgimento delle attività da parte dei suddetti enti: l’art. 2 prevede che possano essere soggetti anche "alle leggi civili concernenti l’autorizzazione governativa per gli acquisti e l’alienazione dei beni dei corpi morali".
In proposito, gli artt. 13, 14 e 15 del r.d. 289/1930 prevedono un penetrante controllo da parte dello Stato nei confronti degli enti di culto acattolico: essi sono soggetti alla vigilanza ed alla tutela governativa; possono essere soggetti a visite ed ispezioni nonché allo scioglimento qualora si riscontrino gravi irregolarità nell’amministrazione; i lori atti e deliberazioni possono essere dichiarati nulli quando contengano violazioni di leggi o regolamenti.
Nonostante la Corte Costituzionale3 abbia in diverse occasioni rilevato il carattere discriminatorio della legge 1159, non si è ancora giunti ad elaborare una legge sulla libertà religiosa tale da abrogare definitivamente la normativa in questione.
Problematiche per gli enti di confessioni religiose prive di Intese con lo Stato emergono nel settore tributario in quanto la l. 1159 non contiene alcuna norma a riguardo.
Per comprendere quale sia il trattamento tributario riservato a tali enti si deve capire se, in via analogica, possano essere assoggettati alla normativa prevista per gli altri enti ecclesiastici oppure se ne siano esclusi, ricadendo così nella normativa di diritto comune.
Pare quasi certo che non possano applicarsi le norme fiscali contenute nella l. 222/1985 poiché riguardanti i soli enti cattolici, né quelle eventualmente previste nelle Intese con altre confessioni.
Se ne dovrebbe dedurre che gli enti della l. 1159 ricadano sotto la disciplina tributaria generale prevista per le altre tipologie di enti, ossia quelli non religiosi.
La soggettività tributaria degli enti di confessioni prive di Intese, al pari degli altri enti religiosi, si ricava non solo dall’autoqualificazione che l’ente si attribuisce nell’atto costitutivo o nello statuto, ma anche da una reale valutazione della natura dell’ente medesimo e delle attività da questo effettivamente svolte.
Ne deriva che anche tali enti, perseguendo comunque principalmente finalità religiose e di culto, possano essere considerati, ai fini tributari, come enti non commerciali.
Se riguardo allo svolgimento di attività diverse da quelle di religione o di culto pare evidente la soggezione alle leggi tributarie statali previste per le medesime attività, il dubbio sorge proprio per le attività di religione e di culto.
Per gli enti della l. 1159 non è infatti sancita, come accade per quelli cattolici all’art. 7 della l. 121/1985 e per quelli acattolici che abbiano Intese, l’equiparazione, ai fini tributari, ad enti con finalità di beneficenza o istruzione.
In virtù del principio costituzionale dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge -art. 8- e del diritto di professare liberamente la propria fede religiosa -art. 19-, si dovrebbe poter concludere che il non aver stipulato Intese non sia fonte di discriminazione nei confronti degli enti delle suddette confessioni.
Una siffatta conclusione è avvalorata anche dall’art. 20 Cost. che, laddove sancisce il principio di non discriminazione nei confronti di enti religiosi, non distingue se questi abbiano o meno concluso Intese con lo Stato: ne deriva che le garanzie in esso previste vengono assicurate a tutti gli enti religiosi.
Un trattamento differenziato, però, emerge da altre normative: si consideri ad esempio l’art. 10 comma 9 del D.Lgs. 460/1997 laddove cita espressamente enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o Intese.
Tale situazione di incertezza conferma la necessità e l’urgenza di riformare la disciplina degli enti soggetti alla l. 1159 alla luce dei principi costituzionali, tenendo conto che, un trattamento differenziato e penalizzante nei confronti degli enti esponenziali di confessioni religiose prive di Intesa, risulta chiaramente illegittimo.
a cura di Angela Colantonio
1G. DALLA TORRE, Lezioni di diritto ecclesiastico, G. Giappichelli Editore, Torino, 2007, p. 192
2L’art. 2 L. 1159/1929 rubrica così: <>
3Corte Cost. 27 aprile 1993, n. 195 in G. RIVETTI, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici, Milano, 2002, p. 40