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Studio Tributario Legale Commerciale

Le ragioni e le forme del trattamento tributario agevolato degli enti ecclesiastici

Premessa

Il legislatore non fornisce una definizione di ente ecclesiastico: alcuni autori adottano un criterio cd. finalistico (sono enti ecclesiastici tutti quelli che hanno un fine di culto o di religione) altri, invece, che costituiscono la dottrina prevalente, adottano un criterio cd. genetico (sono enti ecclesiastici quelli che sorgono sulla base di un provvedimento di diritto canonico).La materia è regolata in primo luogo dall’art. 20 della Costituzione il quale sancisce che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.   Le altre disposizioni sono contenute:- Nell’art. 7 nn.rr. 1 e 2 del Nuovo Concordato (legge 25.03.1985 n. 121);- Nella L. 20.05.1985 n. 222 “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle Diocesi”;- Nel DPR nr. 33/87 “approvazione del regolamento di esecuzione della legge 20.05.1985 n. 222, recante disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi

Il riconoscimento della personalità giuridica

Gli enti ecclesiastici, costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica, possono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica; i requisiti richiesti dall’art. 1 della legge 222/85 sono1:

a) che si tratti di enti riconosciuti o approvati dall’autorità ecclesiastica (cd. riconoscimento canonico);

b) che abbiano sede in Italia;

c) che abbiano fine di religione o di culto.

Il procedimento amministrativo, che porta al riconoscimento della personalità giuridica, è previsto dalla legge 222/85 ed ha come atto introduttivo una formale domanda, diretta al Ministro dell’Interno per il tramite delle Prefetture (art. 3), presentata da chi rappresenta l’Ente secondo il diritto canonico, previo assenso dell’autorità ecclesiastica competente ovvero direttamente da quest’ultima. A conclusione dell’iter previsto, “gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti” devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche (art. 5),2 istituito presso la cancelleria del Tribunale di ogni capoluogo di provincia3.L’art. 2, della legge 222/85, prevede espressamente, per gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, per gli istituti religiosi ed i seminari, il fine di religione o di culto, mentre per le altre persone giuridiche canoniche,  per le fondazioni e in genere per gli enti ecclesiastici senza personalità giuridica, “il fine di religione o di culto” dev’essere di volta in volta accertato, verificando che lo stesso sia costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico.Ai fini civilistici si considerano, in ogni caso, “attività di religione o di culto” quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, alla educazione cristiana (art. 16).Viceversa, si considerano “attività diverse” quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali a scopo di lucro.

Il trattamento tributario

Da un punto di vista strettamente tributario, con l’art. 7 n. 3, dell’Accordo tra Santa Sede e Repubblica Italiana del 18.02.1984, noto come Nuovo Concordato, il regime degli enti ecclesiastici, fino ad allora foriero di privilegi, concessi con i Patti Lateranensi stipulati l’11.02.1929, è stato radicalmente innovato.Il nuovo sistema è articolato su due punti:agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine “di religione o di culto”, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione;le “attività diverse” da quelle di religione e di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello stato concernenti tali attività ed al regime tributario previsto per le medesime.A tal riguardo l’art. 8 del DPR 13/2/87 n. 33 recita, “l’ente ecclesiastico che svolge  attività per le quali sia prescritta dalle leggi tributarie la tenuta delle scritture contabili, deve osservare le norme circa tali scritture relative alle specifiche attività esercitate”.Considerato il tenore dalle disposizioni citate, si potrebbe essere indotti a pensare che il trattamento tributario degli enti ecclesiastici sia di facile comprensione nonché di semplice applicazione pratica. Tuttavia, un’analisi più approfondita della materia ci porta a considerazioni differenti.Da una interpretazione letterale della norma emerge che, le attività aventi finalità di culto o di religione, svolte da enti ecclesiastici, sono qualificate automaticamente come differenti da quelle aventi natura commerciale. Peraltro, come giustamente osservato da alcuni autori4, avuto riguardo alla nozione civilistica di imprenditore (artt. 2135 e 2195 c.c.), a quella di reddito d’impresa (art. 51 del DPR 917/1986) e di esercizio d’impresa (art. 4 del DPR 633/72), non essendo l’attività religiosa diretta alla produzione od alla cessione di beni, né alla prestazione di servizi aventi natura economica, non può essere di natura commerciale. Tuttavia, se l’ente svolge attività dalla connotazione commerciale che, al tempo stesso, non hanno finalità di culto o di religione, queste devono essere sottoposte a tutti gli obblighi fiscali previsti dalla normativa tributaria per tale tipologia di attività.In tale ottica, l’organizzazione di viaggi, soggiorni turistici, somministrazione di pasti, prestazioni alberghiere, etc a fronte di “corrispettivi specifici” sono da considerare a tutti gli effetti attività commerciali e, in quanto tali, se svolte in modo non occasionale, produttive di reddito d’impresa ai fini delle imposte dirette (art. 51 T.U. 917/86) e costituenti esercizio d’impresa ai fini IVA (art. 4 del DPR n. 633/72) 5. La giurisprudenza di merito ha adottato, sul tema, decisioni non univoche, lasciando prevalere in parte, la tesi per cui “la cessione di beni e le prestazioni di servizi, effettuate da associazioni religiose verso i propri associati, sono esenti dall’imposta sui redditi e IVA, purchè si tratti di operazioni poste in essere da enti di natura religiosa, che tali operazioni siano menzionate nello statuto o nell’atto costitutivo o che siano comunque strettamente collegate al conseguimento delle finalità istituzionali perseguite dalle associazioni e che non siano effettuate con fine di lucro personale degli aderenti”6.Il legislatore  con l’art. 5 del D.Lgs. n. 460 del 4 dicembre 1997, recante norme sul “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”, ha apportato sostanziali modifiche sia con riferimento alle Imposte sui Redditi (TUIR)7 e sia relativamente all’Imposta sul Valore Aggiunto8.a. Ai fini delle II.DD. L’art. 111 del T.U.I.R., riporta la disciplina fiscale degli enti di tipo associativo. Le novità introdotte dal D.lgs. 460/97 non riguardano il regime agevolativo inerente la decommercializzazione delle attività svolte nei confronti degli associati o partecipanti ad enti di tipo associativo bensì le singole tipologie associative “privilegiate”, in relazione al carattere specifico dell’attività esercitata.Il comma 3, contiene una specifica disciplina dei corrispettivi percepiti da alcune particolari categorie di enti associativi9: è previsto che essi non influiscano sulla formazione del reddito d’impresa delle associazioni percepenti, ancorché rientranti nelle attività elencate nell’art. 2195 c.c. o tra le prestazioni di servizi non collocabili tra tali attività ma organizzate in forma d’impresa.L’applicazione di tale norma richiede il concorso di tre condizioni:1. Le attività agevolate devono essere effettuate da particolari tipologie di associazioni (politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche e di promozione sociale e di formazione extrascolastica della persona)10;2. I destinatari di cessioni di beni e delle prestazioni di servizi devono essere esclusivamente gli associati o i partecipanti e gli altri soggetti sopra elencati11;3. Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi devono essere effettuate in diretta attuazione degli scopi istituzionali.Il particolare regime tributario, previsto nel comma 3, non si applica alle cessioni, effettuate dalle associazioni in parola, di beni nuovi prodotti per la vendita, la somministrazione di pasti, erogazioni di acqua gas, energia elettrica e vapore, per le prestazioni alberghiere, di alloggio, di trasporto e di deposito e per le prestazioni di servizi portuali e aeroportuali, né per le prestazioni effettuate nell’esercizio della gestione di spacci aziendali e di mense, dell’organizzazione di viaggi e soggiorni turistici, della gestione di fiere ed esposizioni a carattere commerciale, della pubblicità commerciale e delle telecomunicazioni e radiodiffusioni circolari. La presunzione di commercialità di tali attività è a carattere generale e come tale operante per tutti gli enti non commerciali senza alcuna distinzione. Unica eccezione è costituita, per effetto dell’art. 88, comma 2, lett. b), dagli enti pubblici istituiti esclusivamente per l’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie. Le disposizioni dei commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, aggiunte all’art. 111 del  Tuir, col D.lgs. n. 460/97, riguardano solo talune tipologie di associazioni e costituiscono una novità rispetto alla previgente normativa.Il comma 4-bis sancisce la non commercialità delle attività svolte da associazioni di promozione sociale, ricompresse tra gli enti a carattere nazionale le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell’interno. Le attività di organizzazione di viaggi e soggiorni turistici, nonché quelle di somministrazione di alimenti e bevande effettuate presso le sedi in cui viene svolta l’attività istituzionale, da tali associazioni non si considerano commerciali anche se effettuate verso il pagamento di “corrispettivi specifici”. Unico vincolo, oltre a quello previsto dall’art. 3, comma 6, lettera e), della legge 25.08.91 nr. 287, è che tali attività siano svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali e siano effettuate  nei confronti dei soggetti indicati al comma 3, dell’art. 111 TUIR. Il già Ministero delle Finanze ha chiarito che tale previsione di non commercialità ha effetto nei confronti “esclusivamente” delle associazioni di promozione sociale, confermando, per tutti gli altri enti di tipo associativo, il carattere commerciale dell’attività di somministrazione di alimenti o bevande nei bar interni ai circoli ricreativi, anche se svolta nei confronti dei propri associati.Nondimeno, ai sensi del comma 4-ter dell’art. 111 del Tuir, analoga agevolazione è stata prevista, oltre che per le associazioni di promozione sociale, anche  per le associazioni politiche, sindacali e di categoria nonché per le associazioni riconosciute delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese. Inoltre, è prevista, dal comma 4-quater, la non commercialità delle cessioni di pubblicazioni riguardanti i contratti collettivi nazionali di lavoro, effettuate dalle associazioni sindacali e di categoria, anche se le pubblicazioni medesime sono cedute prevalentemente a terzi, a condizione che i corrispettivi percepiti non eccedano i costi di diretta imputazione.Ai fini del riconoscimento delle agevolazioni in parola, le  “associazioni religiose riconosciute” devono inserire nei loro statuti o atti costitutivi le seguenti clausole:1. divieto di distribuire anche in modo indiretto utili o avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’associazione, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge;2. obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente, in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altra associazione con finalità analoghe o ai fini di pubblica utilità, sentito l’organismo di controllo di cui all’art. 3, comma 190, della legge 23.12.1996, n. 662, e salvo diversa destinazione imposta dalla legge;3. obbligo di redigere e di approvare annualmente un rendiconto economico e finanziario secondo le disposizioni statutarie;4. intrasmissibilità della quota o contributo associativo ad eccezione dei trasferimenti a causa di morte e non rivalutabilità della stessa.E’ appena il caso di evidenziare che la quasi totalità degli enti ecclesiastici non ha un atto costitutivo del tipo atto pubblico o scrittura privata autenticata, bensì solo l’atto di costituzione canonico.Le altre categorie di associazioni (politiche, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona) per beneficiare delle predette agevolazioni devono inserire nei loro statuti o atti costitutivi, oltre alle clausole sopra richiamate per le associazioni religiose, anche le seguenti:5. disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l’effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori d’età il diritto di voto per l’approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti pe per la nomina degli organi direttivi dell’associazione;6. eleggibilità libera degli organi amministrativi, principio del voto singolo di cui all’art. 2532, 2° comma, del c.c., sovranità dell’assemblea dei soci, associati o partecipanti e i criteri di  loro ammissione ed esclusione, criteri e idonee forme di pubblicità delle convocazioni assembleari, delle relative deliberazioni, dei bilanci o rendiconti.Ai fini della deducibilità delle spese relative ad attività commerciali esercitate da enti religiosi  il comma 4, dell’art. 109 del TUIR recepisce la disciplina di cui all’art. 26 della L. 222/85: per gli enti religiosi che esercitano attività commerciali, le spese relative all’opera prestata in via continuativa dai loro membri sono determinate con i criteri ivi previsti.Gli istituti religiosi, che esercitano attività commerciali, possono, per ciascuno dei propri membri, che presti continuativamente la propria opera nelle attività commerciali stesse, dedurre, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, se inerente alla sua produzione ed in sostituzione degli altri costi ed oneri relativi alla prestazione d’opera, ad eccezione di quelli previdenziali, un importo pari all’ammontare del limite minimo annuo previsto per le pensioni corrisposte dal Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dall’INPS.Il già Ministero delle Finanze, con D.M. 28.03.1986 ha disposto, ai fini della deduzione dall’anzidetto importo, nella determinazione del reddito d’impresa, che i suddetti enti religiosi debbano tenere un apposito registro numerato e bollato a norma dell’art. 2215 c.c., da conservare ai sensi dell’art. 22, comma 2, del DPR 600/72, nel quale siano indicati gli elementi anagrafici di ciascuno dei membri dell’ente per i quali spetta la deduzione, le mansioni esplicate da ognuno e la durata dell’opera prestata nel periodo d’imposta.b. Ai fini dell’IVASpecularmene a quanto  previsto per il T.U.I.R., l’art. 5, comma 2°, del D.Lgsl. 460/97, ha altresì modificato l’art. 4 del DPR n. 633/72, relativo all’esercizio di imprese ai fini dell’IVA, allo scopo di coordinare la disciplina in materia di enti di tipo associativo con quella prevista per gli stessi enti in materia di Imposte sui redditi.Nondimeno, è stato impossibile pervenire ad un perfetto allineamento tra le due discipline a causa dei vincoli comunitari imposti in materia d’IVA; ne consegue che alcune particolari attività sono decommercializzate ai fini delle imposte sui redditi mentre rimangono imponibili ai fini IVA.Un esempio di tale asimmetria di trattamento nelle due imposte è data, per le associazioni religiose, dal combinato disposto degli artt. 111, DPR n. 917/86, e 4, DPR n.633/72:l’organizzazione di viaggi e di soggiorni turistici, effettuata nei confronti di iscritti, associati o partecipanti, anche verso corrispettivi specifici, non è attività commerciale se l’associazione è “riconosciuta dalle confessioni religiose con le quali lo stato ha stipulato patti, accordi o intese (art. 111, comma 4-ter, TUIR). Nondimeno, ai fini IVA, l’attività resta comunque commerciale;la somministrazione di pasti, nonché le prestazioni di alloggio ed alberghiere, verso corrispettivi specifici, rimangono in ogni caso attività commerciale, anche se svolte da tali associazioni nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti ed in diretta attuazione degli scopi istituzionali (artt. 111, commi 3° e 4°, TUIR, e 4, comma 5°, DPR n. 633/72).Ai fini IVA, una particolare previsione, per gli enti non commerciali, è contenuta nel comma 4°, dell’art. 4, del DPR n.  633/72.E’ stabilito che il presupposto di  imponibilità, per tali enti, sussiste solo per le operazioni poste in essere nell’ambito di attività commerciali o agricole, eventualmente svolte in aggiunta all’attività istituzionale.Analogamente a quanto visto ai fini delle imposte sul reddito, sono considerate commerciali le cessioni o prestazioni effettuate dagli enti in parola nei confronti dei propri soci, associati o partecipanti, dietro il pagamento di corrispettivi specifici o di contributi supplementari; fanno eccezione alcuni tipi di associazioni, a condizione che le cessioni o prestazioni di servizi siano effettuate nei confronti di soci, associati o partecipanti in conformità alle finalità istituzionali dell’ente.Al fine di evitare fenomeni elusivi, nel caso di enti culturali o sportivi aventi natura civilistica di associazioni non riconosciute, l’esclusione dal campo di applicazione dell’imposta opera solo a condizione che le associazioni interessate  si conformino a determinate clausole, indicate nei commi 7° e 8° dell’art. 4, da inserire nei relativi atti costitutivi o statuti. Il già Ministero delle Finanze si è occupato a più riprese di dettare i termini della corretta applicazione della norma in parola, attese anche le implicazioni di carattere comunitario; in particolare, in tema di circoli aziendali, riconducibili alla categoria degli enti non commerciali, i quali svolgono attività a favore dei dipendenti dell’azienda, che talvolta possono ricomprendere servizi di natura commerciale, queste attività si considerano escluse dall’applicazione dell’IVA solo nel caso in cui le operazioni, svolte esclusivamente a favore dei propri associati, che partecipano pienamente di tutti i diritti e obblighi in qualità di soci,  siano rese in conformità alle dirette finalità istituzionali degli enti stessi (R.M. 22/10/1997 n. 210/E) 

La commercialità dell’ente ecclesiastico

E’ da rilevare come per gli enti ecclesiastici sembrerebbe che il legislatore abbia voluto creare ex lege una qualificazione di non commercialità.Infatti, come già evidenziato nel paragrafo sub. 2, la legge n. 222/85, applicativa del c.d. Nuovo Concordato, impegna lo Stato a riconoscere la personalità giuridica degli Enti Ecclesiastici “costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica” che abbiano fine di religione o di culto.La stessa legge prevede che tali enti possano svolgere a determinate condizioni attività diverse da quelle di religione o culto, comprese quelle c.d. commerciali, senza che ciò comporti la perdita della qualifica di ente ecclesiastico. L’art. 19, della L. n. 222/85 prevede che il riconoscimento della personalità giuridica può essere revocato quando vi sia un mutamento sostanziale delle condizioni in base alle quali lo stesso era stato concesso, che faccia perdere all’ente uno dei requisiti prescritti per il riconoscimento stesso. Da quanto detto ne deriverebbe, quale logico corollario, che l’ente ecclesiastico è riconosciuto ex lege non commerciale.Tale impostazione ermeneutica sembrerebbe confermata anche dal legislatore nell’art. 111-bis, comma 4, del TUIR,  il quale stabilisce che le disposizioni relative alla perdita della qualifica di ente non commerciale “non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili”. Alcuni autori ritengono alla luce di quanto in precedenza detto che “gli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche sono enti non commerciali e non possono mai perdere tale qualifica, anche se esercitano in maniera prevalente attività commerciali” . Nondimeno, fermo restando la disposizione di cui all’art. 111-bis, comma 4°, alla luce anche della norma di recepimento del c.d. Nuovo Concordato, si ritiene che anche gli enti ecclesiastici possono perdere la qualifica di enti non commerciali, qualora si verifichi una revoca del riconoscimento della personalità giuridica in seguito ad un mutamento sostanziale delle condizioni in base alle quali lo stesso era stato concesso. Se così non fosse si svuoterebbe di significato parte degli accordi di revisione dei Patti Lateranensi, che hanno tra i fini non ultimi, il superamento del trattamento fiscale privilegiato degli enti ecclesiastici.Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una presunzione iuris tantum piuttosto che iuris et de iure. Si osserva, tuttavia, che la revoca del riconoscimento della personalità giuridica ad un ente ecclesiastico resta comunque legata alla perdita di ogni riferimento alle finalità di religione o di culto, sulla base del quale tale riconoscimento era stato attribuito.In generale la riconducibilità di un ente associativo nell’ambito applicativo del 3° comma dell’art. 111 del TUIR, ha sollevato spesso problemi interpretativi; sulla questione si è pronunciata la Corte Costituzionale che ha affermato l’insufficienza dell’auto-qualificazione dell’ente sulla base della sola definizione statutaria, ed ha affermato, invece, la necessità di una valutazione della reale natura dell’ente e dell’attività in concreto esercitata, alla stregua di obiettivi e criteri desumibili dall’insieme delle norme dell’ordinamento.Le associazioni a carattere religioso non civilmente riconosciute “devono comprovare la natura e la caratteristica dell’organizzazione secondo i criteri che qualificano nell’ordinamento dello Stato i fini di religione e di culto, desumibili dal Concordato fra Stato e Chiesa cattolica e dalle Intese stipulate con altre confessioni religiose” 32.A conforto sovviene, altresì, la risoluzione n. 68/E del 1999, per quanto attiene ai contributi ricevuti dagli enti ecclesiastici per finalità proprie degli stessi; in tal caso, ai fini dell’applicazione dell’IVA, occorre distinguere due casi:a) se i contributi si configurano quali corrispettivi di specifici servizi previsti dall’ente beneficiario;b) ovvero, se gli stessi concretizzano per il beneficiario una contribuzione a fondo perduto.Nel primo caso il versamento evidenzierebbe un’operazione imponibile al tributo, mentre nel secondo caso l’operazione rimarrebbe fuori dal campo di applicazione dell’IVA.

a cura di Giuseppe Romeo